lunedì 8 febbraio 2021

Prevenire il suicidio Calliope Onlus

 


 

 
La mia vita, il suicidio e la suicidologia Maurizio Pompili Insignito con lo Shneidman Award 2008 dall’American Association of Suicidology Department of Psychiatry, Sant’Andrea Hospital, Sapienza University of Rome, Italy McLean Hospital – Harvard Medical School, USA Corresponding author: Maurizio Pompili, M.D., Department of Psychiatry – Sant’Andrea Hospital, Sapienza University of Rome, 1035 Via di Grottarossa, 00189 Roma Italy Tel.: +39 06 33775675. Fax:+390633775342; E-mail Address: maurizio.pompili@uniroma1.it or mpompili@mclean.harvard.edu. Un milione di suicidi ogni anno nel mondo e’ una perdita di vite umane inaccettabile e per la quale poco ancora si fa rispetto ad altre problemi di sanita’ pubblica. Poco serve a rammentare che nel mondo ogni 40 secondi si verifica un suicidio e ogni tre secondi si registra un tentativo di suicidio. Inoltre si è assistito ad un’allarmante crescita dei tassi di suicidio tra i giovani, segnando una controtendenza rispetto agli anni cinquanta in cui il fenomeno suicidario era più serio nell’età anziana. Attualmente molte risorse sono dedicate a programmi di prevenzione nelle scuole, a sforzi nella ricerca empirica e all’organizzazione di centri per lo studio e la prevenzione del suicidio, a pubblicazioni e ad accordi multidisciplinari. La prevenzione del suicidio e’ a volte complessa e diverisificata. Nello specifico, la prevenzione universale adotta strategie o iniziative rivolte a tutta la popolazione per aumentare la consapevolezza del fenomeno e fornire indicazioni sulle modalitá di aiuto. In questo ambito troviamo campagne dei mass media, la necessita’ di ridutte l’accesso ai mezzi letali, la creazione di centri di crisi e i programmi di informazione nelle scuole. La prevenzione selettiva si serve di strategie preventive dirette ai gruppi a rischio e che hanno più probabilitá di diventare suicidi mentre la prevenzione indicata utilizza strategie dirette agli individui che hanno segni precoci di alto rischio di suicidio. A questo si aggiungono modelli clinici che cercano di far luce sul fenomeno per meglio prevenirlo . Fin dal 1999 il Surgeon General degli Stati Uniti ha divulgato il Call to Action to Prevent Suicide, un vasto documento che rappresenta la pietra miliare dell’allarme che il fenomeno suicidario desta nel mondo. Purtroppo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’ non solo sottolineano l’incremento dei tassi di suicidio negli ultimi cinquanta anni ma pongono l’accento sul fatto che nel 2020 si arrivera’ ad oltre un milione e mezzo di morti per suicidio. Gli individui che tentano il suicidio hanno un alto rischio di effettuare ulteriori tentativi di suicidio, spesso con esito letale; alcune strategie di sostegno per coloro che hanno tentato il suicidio sono di grande valore, primo fra tutte incontri programmati con follow-up regolari; deve inoltre esserci una valida rete di collegamento tra i servizi psichiatrici in modo tale da riconoscere e gestire questi individui globalmente. Il suicidio e’ stato da sempre stigmatizzato e il ruolo dello stigma rimane uno dei principali problemi nell’esecuzione degli interventi preventivi. Pregnanti sono i riferimenti riportati da Alvarez nel suo celebre libro. Di seguito ne riportiamo alcuni per indicare quanto radicata sia la discriminazione e la paura dell’argomento suicidio. Nel 1601 Fulbecke (un avvocato) afferma che il suicida è trascinato da un cavallo in un posto di punizione e vergogna, nel quale viene appeso ad una struttura ad hoc e nessuno può far scendere il corpo tranne l’autorità di un magistrato. Successivamente un’altra autorità, Blackstone, scrisse che la sepoltura dei suicidi era eseguita lungo le strade con una struttura che legava il corpo e che era simile a quella usata per i vampiri. In alcuni casi si poneva una pietra sul volto del suicida prima della sepoltura per evitare che il fantasma si ripresentasse. I corpi dei suicidi erano poi destinati alle scuole di anatomia (Inghilterra); i corpi venivano anche sepolti tra la spazzatura (Francia); a Danzica (Polonia) il corpo del suicida non poteva essere fatto passare dalla porta dell’abitazione bensì veniva fatto uscire dalla finestra che veniva successivamente bruciata. Ad Atene (Grecia) il corpo del suicida veniva sepolto fuori le mura della città e lontano dalle altre tombe; la mano del suicida veniva tagliata e sepolta a parte. Ogni tipo di provvedimento veniva poi preso per deprivare di ogni possedimento la vittima del suicidio a favore dei governanti che divenivano proprietari di tutti i suoi averi. Comune era anche la falsificazione dei documenti di morte; se nel certificato si attestava la morte per suicidio non era previsto alcun rito funebre con tutte le conseguenze previste dalla società e dalla legge; se invece si attestava una morte naturale si poteva procedere con un funerale in grande stile. Il tutto dipendeva se si era ricchi e potenti o poveri ed emarginati. Storicamente l’attitudine della società nei confronti del suicidio e i comportamenti suicidari rivela una grande spaccatura tra l’accettazione razionale e quella irrazionale, che invece si nutre di superstizioni e sentimenti di ostilità e punizione. Nel corso della storia, la religione ha svolto un ruolo importante nell’influenzare lo stigma nei confronti del suicidio. La chiesa sia nel Nuovo che nel Vecchio Testamento non proibisce direttamente il suicidio. Nel Vecchio Testamento ci sono vari suicidi e per nessuno di essi si hanno commenti negativi. I governi europei iniziarono a cambiare le loro leggi nel 1824; il parlamento inglese approva una legge che permette di seppellire le vittime del suicidio nei posti adiacenti le chiese, sebbene solo dalle 21 a mezzanotte (Pompili e Tatarelli, 2007). Lo stigma spesso impedisce l’accesso alle cure psichiatriche e dunque può influenzare negativamente il rischio di suicidio. E' stato stimato che i suicidi tra i giovani dai 15 ai 19 anni sono aumentati del 245 per cento tra il 1956 e il 1994 (Peters et al. 1998). Il suicidio giovanile è attualmente la seconda causa di morte nella fascia di età dai 15 ai 24 anni e costituisce un allarmante problema di sanità pubblica. E' difficile avere una stima esatta del numero di suicidi e tentativi di suicidio in questa fascia di età. Sia per la scarsa accuratezza dei certificati di morte e sia per l'impossibilità, in molti casi, di valutare l'effettiva letalità di un tentativo di suicidio. Da alcune indagini nella popolazione giovanile è emersa infatti la difficoltà da parte degli intervistati di distinguere tra un tentativo di suicidio (suicidio non riuscito per cause indipendenti dalla volontà del soggetto) e un gesto di autolesionismo (nel quale non vi è l’intenzione di morire). I metodi impiegati per togliersi la vita variano nelle diverse parti del mondo a seconda della disponibilità dei mezzi letali. In alcune aree geografiche è molto frequente il suicidio con ingestione di pesticidi mentre in altre aree prevale l’intossicazione da farmaci e con gas di scarico di automobili. I maschi solitamente utilizzano metodi più letali anche se negli ultimi anni si registra una analogo orientamento tra le femmine. Il miglior approccio per la prevenzione è senz’altro quello che parte dalle scuole, con il coinvolgimento oltre che dei ragazzi anche degli insegnanti, dei medici, del personale infermieristico e di tutte le figure presenti nell’ambiente. L’ideazione suicidaria non è rara: può presentarsi in qualsiasi individuo sano e può rientrare nel normale processo di crescita, una fase in cui si cerca di capire la vita, la morte e il significato dell’esistenza. In effetti, i giovani hanno bisogno di confrontarsi su questi temi con gli adulti. I pensieri di suicidio divengono preoccupanti quando si presentano come possibile e unica soluzione dei loro problemi. E’ frequente che un discreto numero di persone che per vari motivi interagiscono con me, si stupiscano del mio interesse e studio per il tema del suicidio manifestato persino in splendide giornate di sole e di festa; queste persone sostengono che il suicidio è un argomento mortifero, tetro e macabro che non si addice a tanta manifestazione di vita. Io sono solito rispondere sempre con un’affermazione che testimonia fortemente la vita, e vale a dire che il suicidio non dovrebbe essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte bensì il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile. Se tale dolore potesse essere alleviato quei soggetti testimonierebbero la loro voglia di vivere. La suicidologia può essere definita come la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio e alla sua prevenzione. Il termine (e il concetto) fu usato per primo usato da Edwin Sheneidman (1964) e da allora e’ stato impiegato in diversi ambienti per descrivere aspetti di un training specifico (Fellowship in Suicidology, 1967); come parte di una nuova rivista scientifica (Bulletin of Suicidology, 1968) o come etichetta di un’organizzazione (American Association of Suicidology, 1968). La suicidologia diversamente da altre scienze comportamentiste non include meramente lo studio del suicidio, ma enfatizza la prevenzione dell’atto letale; in altre parole incorpora interventi clinici appropriati per prevenire il suicidio, una caratteristica non sempre esplicitata nella miriade di contributi sul tema. Il focus della suicidologia non e’ necessariamente il suicidio ma anche tutti i comportamenti suicidari. L’American Association of Suicidology, fondata da Shneidman e’ un’istituzione nel panorama internazionale dello studio e prevenzione del suicidio. Hanno diretto tale associazione i più grandi nomi della suicidologia; e il più importante periodico sul suicidio (Suicide and Life-Threatening Behavior). Non capita di frequente di essere insignito con un riconoscimento inerente il suicidio come lo Shneidman Award dall’American Association of Suicidology (AAS) con la motivazione “Outstanding early career contributions to Suicidology”. E’ dunque comprensibile la mia emozione nel recarmi a Boston per la cerimonia ufficiale il 18 aprile 2008 presso la Conferenza Annuale dell’Association e di essere presentato con tutti gli onori da Lanny Berman, Executive Director dell’AAS. Ancor di più, questo riconoscimento giunge in un preciso momento temporale di grande significato per il suicidio, ossia i 40 anni dell’American Association of Suicidology e i 90 anni di Edwin Shneidman, considerato il padre della suicidologia. Mi sono dunque recato a Los Angeles per conoscere il vecchio Shneidman, personaggio rappresentativo della nostra disciplina. Ho potuto sentire dalle sue parole ciò che avvenne in quel fatidico giorno così importante per lo studio del suicidio. La fondazione simbolica (o in ogni modo il primum movens) della suicidologia può essere infatti ricondotta una giornata del 1949 quando Shneidman lavorava come psicologo clinico presso il Brentwood Veteran Administration Hospital di Los Angeles. In quel particolare giorno fu chiamato dal direttore dell’ospedale affinché scrivesse due lettere di condoglianze per le giovani mogli di due uomini che si erano tolti la vita durante il corso del ricovero. Shneidman si recò presso nell’ufficio del magistrato nel vecchio Los Angeles Hall of Records dove erano stati aperti i fascicoli inerenti alle morte dei due uomini. Nell’aprire la documentazione egli notò che uno dei due fascicoli conteneva una nota di suicidio, un biglietto lasciato dal defunto prima di morire, mentre l’altro non lo conteneva. In quell’ambiente, fra migliaia di fascicoli, iniziò ad aprirne alcuni e notò che con una frequenza di circa 1 a 15 questi fascicoli riportavano una nota di suicidio. Gli tornò in mente il Metodo della Differenza di Stuart Mill e dunque la possibilità di studiare quel materiale con un metodo scientifico. In quei minuti accadde qualcosa di unico. Resosi conto di essere circondato da fascicoli di suicidi avvenuti nei cinquant’anni precedenti e dunque secondo la sua stima circa 2000 note, decise di resistere alla tentazione di leggere quelle note, altrimenti, ammetterà in seguito, “avrei finito per trovarci ciò che io (soggettivamente) mi aspettavo. Avrei appreso molto sulla miseria umana di ciascun soggetto, ma non avrei fatto nulla per porre le basi per lo studio del suicidio, un’area quasi inesistente”. Egli dunque fece le fotocopie di oltre 700 note di suicidio, le mise da parte e non le lesse. In seguito, Shneidman pensò di confrontare in cieco le note che aveva trovato in quell’archivio con note simulate scritte da persone non suicide (Shneidman 1998). Il lavoro che elaborò con l’aiuto di Norman Farberow fu il primo tentativo di studiare il suicidio con un metodo scientifico (Shneidman e Farberow 1956; 1957). I loro sforzi furono premiati con contributi economici sempre crescenti e da quei primi passi nacque il primo centro per la prevenzione del suicidio, il Los Angeles Suicide Prevention Center che oltre al contributo di Shneidman e Farberow ebbe il contributo di Robert Litman. Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l‘ingrediente base del suicidio è il dolore mentale insopportabile (Shneidman 1993a), che chiama psychache, che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce le domande chiave che possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un insopportabile dolore mentale, allora il compito principale di chi deve occuparsi di un individuo suicida che soffre a tal punto è quello di alleviare questo dolore (Shneidman 2004; 2005). Infatti, si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierá di vivere. Shneidman (1993a,b) inoltre considera che le fonti principali di dolore psicologico ovvero vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, hanno origine nei bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che da essa deriva, ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalitá e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, ottenere autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi su qualcuno e il bisogno di essere accettati e compresi e ricevere conforto. Shneidman (1985) ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione. La suicidologia classica considera dunque il suicidio come un tentativo, sebbene estremo e non adeguato, di porre fine al dolore insopportabile dell’individuo. Tale dolore converge in uno stato chiamato comunemente stato perturbato nel quale si ritrova l’angoscia estrema, la perdita delle aspettative future, la visione del dolore come irrisolvibile ed unico. Il termine psychache tenta infatti di esprimere il dramma della mente del soggetto che si suicida nel quale la colpa, la vergogna, la solitudine, la paura, l’ansia sono caratteristiche facilmente identificabili. L’individuo ha dunque necessità di porre fine a tale stato; il rischio di suicidio diviene grave, quando quel soggetto lo considera come la migliore ed unica soluzione per porre fine a quell’immenso dolore psicologico. Nella concettualizzazione di Shneidman (1996) il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile. L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente poche per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile. Quindi, in questi termini, il suicidio si configura come la soluzione perfetta per le angosce insopportabili della vita. Presso l’UOC di Psichiatria dell’Ospedale Sant’Andrea in Roma diretta dal Prof. Tatarelli si sta costituendo un ambulatorio dedicato ai soggetti a rischio di suicidio. Intorno a questa iniziativa ruota un gruppo foltito di collaboratori che insieme con me si occupa di diffondere i fondamenti della prevenzione del suicidio nell’ambito della comunità. Recentemente, un collega e collaboratore mi ha riferito quanto segue nel presentare ad un presidio medico una breve brochure nella quale abbiamo riassunti alcuni dati salienti sul suicidio, compresi i miti e i fatti del fenomeno “...dopo poco la reazione di medici, infermieri e soprattutto della psicologa è stata veramente incredibile. La psicologa ha chiesto di buttare tutto pensando che fosse "terribile" per chi passa di lì e già sta male, vedere certi argomenti. L'infermiera l'ha considerata come una cosa che può indurre al suicidio chi già è "debole" e il medico l'ha definita addirittura una possibile forma di deviazione-induzione mentale nei giovani che stanno ancora ultimando i processi cognitivi. Inutile dirti la validità di ogni mia spiegazione di fronte ai loro convincimenti, più di tutto mi ha sconvolto la psicologa. Il mio personale parere è che per il lavoro sul territorio per quanto riguarda medici e personale para-medico sarà per noi più giovani molto difficile...”. Non ci stancheremo mai di ripetere che parlare di suicidio e chiedere sul suicidio sia senza dubbio l’azione migliore per prevenirlo. Ripenso dunque alle mie giornate passate a studiare questo enigmatico argomento e prendo coscienza del duro lavoro che ci attende per correggere i miti e le false credenze sul fenomeno. Come referente italiano dell’International Association for Suicide Prevention (IASP) ho il compito di organizzare eventi che sensibilizzino l’opinione pubblica. Il 10 settembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. Il motto per il 2008 e’ “Pensa globalmente, pianifica a livello nazionale ed agisci localmente”. Il suicidio si può prevenire e la miseria umana puo’ essere compresa. A noi spetta il compito di cimentarci con le emozioni negative degli individui suicidi e di come trovare quel ponte immaginario che può condurci alla vera comprensione del loro dramma interiore. Contatti e informazioni visitando il sito: w3.uniroma1.it/suicideprevention prevenzionesuicidio@uniroma1.it maurizio.pompili@uniroma1.it Bibliografia Peters K.D, Kochanek KD, Murphy SL. (1998). Deaths: final data for 1996. 47, 9. Pompili M, Tatarelli R. (2007). Suicidio e suicidologia: uno sguardo al futuro. Minerva Psichiatrica, 48, 99-118. Shneidman, E. S. (1964). 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(1957). Some comparisons between genuine and simulated suicide notes in terms of Mowrer's concepts of discomfort and relief. Journal of General Psychology, 56, 251-256.

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